09/12/14

Il ruolo del game designer


Qualche giorno fa è venuto a mancare Ralph Baer, l'inventore del "table tennis", una delle prime "versioni" di Pong, della Magnavox Odyssey, la prima console, e del celebre Simon.  Sinceramente, a parte aver letto delle sue pionieristiche invenzioni in campo ludico in qualche libro di game design, confesso di conoscere pochissimo il suo lavoro. Il suo nome però per me rimane il nome de "il padre dei videogiochi", e ci tenevo a iniziare questo post con un saluto a chi ha contribuito a cambiare in modo così radicale il mondo dell'intrattenimento.

Probabilmente, molti di voi hanno sentito il suo nome per la prima volta in questi giorni.
Capita, infatti, che nel mondo del gioco il nome di un autore venga lasciato a margine, dando importanza più al nome del produttore o del prodotto stesso. Insomma: tutti conoscono Gino Pilotino, pochissimi sanno che l'ha inventato una donna, Carol Wiseley. Si tratta di un argomento a me molto caro - ne avevamo parlato anche a Lucca Comics & Games un paio di anni fa - di recente portato all'attenzione di un pubblico un po' più ampio da un articolo di Dario De Toffoli.

Personalmente divido la questione in due segmenti: da un lato il ruolo del designer come "autore primo" di un'opera, dall'altro la funzione del designer come valore aggiunto a livello commerciale.

Sulla prima questione credo sia difficile, sia per qualsiasi operatore del settore che per qualsiasi appassionato che abbia un minimo di rispetto per il lavoro di un autore, essere in disaccordo con la posizione per cui a un game designer debba essere riconosciuta la paternità dell'opera (quantomeno nei credits della stessa). Parimenti, deve essergli riconosciuto un compenso, sulla base degli accordi che vengono presi quando l'autore cede al publisher i diritti del proprio gioco. In questo "segmento" cadono tutte le discussioni che riguardano plagi, cloni, furti di idee: una brutta piaga, di cui avevo già parlato in un vecchio post che riassume la mia posizione a riguardo.

Il secondo argomento è altrettanto vasto, e la mia posizione molto più sfumata, anzi: ho più domande che risposte. In sostanza: il game designer di un gioco da tavolo è paragonabile a un brand (come il "marchio" costituito dal prodotto, dalla linea, dall'azienda) che pesa sulle vendite di un gioco? Ci sono altri settori dell'entertainment che possono essere presi a modello?

Chi chiede a gran voce che il nome dell'autore sia ben in mostra sulla cover del gioco, spesso fa un parallelo fra giochi e libri: se il libro ha il nome dell'autore in copertina, spesso anche più in vista del nome dell'opera, perché non dovrebbe essere lo stesso per i giochi?

Nell'ambiente cinematografico si va a "spingere" a livello di marketing innanzitutto il nome del film, poi a seconda dei casi l'attore, il regista, il produttore o chi cura gli effetti speciali (in grandissimo subordine troviamo lo sceneggiatore, che di fatto è quello che ha scritto la trama, ma il pubblico di solito lo accoglie a suon di sticazzi: se il film fosse una squadra di calcio, lo sceneggiatore sarebbe il mediano).

Nel mondo videoludico succede più o meno lo stesso, si cita sempre il produttore, e la software house, che si presenta come un marchio unico, senza troppi individualismi, per motivi abbastanza ovvi: si lavora in team e avere un brand da spingere è più facile che fare pubblicità a un singolo membro della squadra (quest'ultima cosa non vale se vi chiamate Hideo Kojima). Qualche eccezione si trova, soprattutto nei giochi indie.

Nell'ambiente del gioco da tavolo si va da un estremo a un altro: ci sono autori indubbiamente blasonati fra la nicchia ristretta di appassionatissimi, che rappresentano un valore aggiunto per l'editore (almeno finché non pubblicano con qualche concorrente); allo stesso tempo, più un prodotto scende di target, meno si tende a inserire il nome in copertina, finché non scompare del tutto nella stragrande maggioranza dei giochi mass market, con qualche curioso caso intermedio.

Mi viene in mente la Haba, in cui il nome dell'autore è in copertina, ma è scritto in un corpo del testo minuscolo.
O Co-Mix, della Horrible Games, in cui in copertina - probabilmente anche a causa della natura "grafica" del gioco - trova spazio tutto il team creativo.
O la serie di giochi da tavolo della LEGO, in cui la casa danese ha omesso di menzionare sui box Howard Cephas, il lead designer della serie (ricordate il mediano?), ma ha inserito il nome del "centravanti" Reiner Knizia su Ramses Pyramid, probabilmente per un vincolo contrattuale: tutti sanno cos'è LEGO, molti meno conoscono Reiner Knizia, per cui nutro pochi dubbi su chi abbia ricavato il vantaggio maggiore da quel nome sulla cover.

A me piace l'idea di lavorare come squadra, in modo che ognuno abbia uno spazio, ma in cui quello che conta è l'insieme, e anche se ovviamente il primo impulso sarebbe quello di volere il mio nome bello grosso sulla cover, inciso nella spada del protagonista dell'illustrazione di turno, mi soddisfa molto sentirmi parte di un team, fare le cose non in quanto "io" ma per raggiungere un obiettivo comune.

Questo per quanto riguarda me, perché in realtà non credo ci sia una formula vincente in assoluto: ogni pubblico è attento a cose diverse, e tante sono le strategie applicabili, e sarebbe riduttivo trattarle qui. E soprattutto ogni autore ha aspirazioni diverse, io conosco le mie, non quelle degli altri.
E quindi? L'ho detto: non ci sono risposte in questo post, solo la curiosità di vedere cosa succederà, come si evolverà il mercato del gioco da tavola, e quanti e quali ruoli sapranno trovare, e magari inventare, i game designer al suo interno.

2 commenti:

Angiolillo ha detto...

Provo una sintesi. Il primo punto, diritto al riconoscimento della paternità dell'opera, è quello che spinge ad avere il nome dell'autore in copertina. Del gioco come del libro. Nonostante il gioco, come il libro, sia un lavoro di squadra che prevede curatori, illustratori, grafici, traduttori, eccetera. Tutti debitamente da accreditare, sul libro, ma questo non avviene in copertina.
Capitano anche libri senza nome dell'autore in copertina. Anche libri ad alta diffusione: diverse guide turistiche, diversiu ricettari. Ma difficilmente a romanzi. E se vedo in giro un libro, che so, che raccoglie regolamenti di giochi di carte, posso dirti a libro ancora chiuso che se non ha il nome dell'autore in copertina è con ottima probabilità più scadente di uno firmato. Con rare eccezioni.
Il vantaggio del nome come "brand" è una conseguenza. Prevede una cultura che ci vuole tempo a costruire. Prima occorre che diventi normale trovare un nome in copertina e che la gente impari a riconoscere quei nomi. Poi, di conseguenza, essi possono assumere un valore. Che non è assoluto ma relativo: c'è gente che compra un libro se ci legge scritto sopra Volo o Vespa, altri che invece proprio davanti a quei nomi preferiscono lasciare il libro sullo scaffale. C'è gente, tantissima, che cerca i libri di Bruno Morchio, e molta che nemmeno sa chi sia. Però agli editori il nome di Morchio conviene comunque scrivercelo: è gratis, e qualcosa "fa" comunque.
Io posso citare il Festival di Gradara, un po' più di vent'anni fa. Ai tempi, i nomi sulle copertine dei giochi erano rariotà. L'Espresso del 17 ottobre 1993 dedica cinque o sei pagine al festival. Foto di apertura a una pagina e mezza dedicata a Luca Giuliano e al suo On Stage!, inedito ma con autore presente: se ne parla per 39 righe di testo. A Lex Arcana, edizioni Dal Negro, 25 righe e una foto con intervista agli autori. Si presenta anche Druid della Editrice Giochi, unico gioco di ruolo al mondo senza nome degli autori sopra. I quali sono presenti a gradara, ma in forma anonima: gioco liquidato da L'Espresso in 4 righe.
Pensiamo anche solo a quello. Nel mio piccolo, che Knizia non sono, mi capita ogni tanto di finire sui giornali, alla radio, in televisione, e così nell'occasione di dare visibilità a qualche mio gioco in scatola o a qualche mio libro. Quanto vale in termini economici questa visibilità, se pensiamo a quanto avrebbero dovuto pagare gli editori per ottenerla pagando inserzioni? Perché sprecarla evitandi di riconoscere il ruolo dell'autore, cosa che tutto sommato costa zero? Non darà grandi vantaggi, ma il rapporto costi (nulli) / benefici è buono.

Marco Valtriani ha detto...

Tecnicamente il costo non è proprio zero. Nel senso che non è un costo vivo, ma potrebbe pesare in diversi modi, principalmente togliendo visibilità ad altri brand presenti sulla scatola.
Anche se in linea di massima sono d'accordo anche perché, appunto, ci sono molti modi per far comparire il nome o i nomi nella grafica del box.
Mi chiedevo solo se, oltre all'approccio "book-like", non possa essere più utile un approccio "videogame-like", in cui l'autore, essendo parte del team di sviluppo del gioco, vada a rafforzare il marchio dell'azienda e non quello personale.

Io per esempio sono un grande fan dei giochi della Telltale. Il loro team di sviluppo comprende ovviamente diverse persone. Da appassionato, seguo e m'informo sulla presenza o meno di alcuni dei designer gioco per gioco, ma è indubbio che il loro modo di presentarsi renda il marchio molto più forte: anziché avere "a game by" seguito da un paio di nomi, tutti i giochi sono "a Telltale game".

A me quest'approccio piace e mi chiedo se non possa funzionare coi giochi da tavolo. Il designer (o i designer) hanno comunque il loro spazio, sia nei credits che nei comunicati e nelle interviste (il cui target sono gli appassionati), ma a livello d'immagine al pubblico il marchio esce sicuramente più forte che se ci fosse una pletora di nomi.

Il nome dell'autore diventa forte comunque, e se poi acquisisce "dignità" come brand a sé stante, verrà speso: basti pensare a Civilization, diventato poi "Sid Meier's Civilization", anche sui giochi da tavolo, nonostante Sid Meier non abbia sviluppato né il boardgame (è di
Kevin Wilson) né l'ultimo capitolo della serie, che è stato ideato da Jon Shafer.

C'è anche da dire che il discorso secondo me è diverso se si parla di giochi che nascono per un pubblico già di appassionati, o se sono rivolti a un pubblico più generico e ancora da educare.